NIKE E LE CONDIZIONI…

NIKE E LE CONDIZIONI DI LAVORO

La globalizzazione ha allargato i confini del nostro modo di vivere. La circolazione di idee, persone, merci e capitali ha comportato dei cambiamenti radicali in tutto il pianeta ed in molti aspetti della nostra vita, dalla cultura alla finanza. La globalizzazione ha ovviamente inciso anche sul modo di lavorare e di produrre.Ossia, non solo ci sono molte piu’ merci a disposizione, ma e’ il concetto stesso di produzione che e’ cambiato, in quanto essa si spostadove’ piu’ conveniente produrre. La Nike e’ nata nel 1972, trasformandosi da importatrice di scarpe giapponesi in azienda produttrice. Ed ha iniziato a produrre dove prima importava le scarpe, Giappone e Corea.cioè dove dove esisteva un distretto industriale capace di avere tecnologia, materie prime e conoscenza per produrre questo prodotto. Questo elemento ha lasciato una impronta in tutta la sua storia, in quanto Nike non ha mai posseduto una fabbrica per produrre le proprie scarpe, ma ha sempre cercato dei fornitori esterni che producessero per suo conto. Con il passare del tempo e con il successo commerciale dei suoi prodotti, Nike e’ diventata la prima azienda al mondo di scarpe, abbigliamento e accessori per lo sport. Oggi, prodotti con il marchio Nike vengono realizzati in circa 70 paesi al mondo da oltre 700 fornitori legati all’azienda americana da un contratto di subappalto. Nike progetta i suoi prodotti, li distrubuisce, li pubblicizza, ma delega la produzione a fabbriche specializzate – non di sua proprieta’ – in tutto il mondo. Questo sistema produttivo non e’ utilizzato, ovviamente, solo da Nike. E’ un sistema produttivo che si e’ sviluppato nella seconda meta’ del novecento.I vantaggi: si produce in quei posti nei quail esistono distretti industriali specializzati, con evidenti benefici per la fruizione di tecnologia, materie prime e conoscenza. Altro vantaggio e’ quello del costo del lavoro, che nei paesi del Sud Est Asiatico e’ sicuramente piu’ competitivo che negli Stati Uniti o nell’Europa Occidentale. Ovviamente, questo sistema ha anche i suoi problemi. Il confine fra sfruttamento e sviluppo e’ molto sottile. Le aziende che fanno produrre nel terzo mondo sfruttano tali paesi oppure investono in tali paesi? Se sfruttano, le aziende aggravano la poverta’ di tali paesi. Se investono, contribuiscono al miglioramento delle condizioni economiche di tali paesi e tutti ne beneficiano, lavoratori compresi.

Questo e’ un dilemma, a cui si possono dare molteplici risposte. Nel corso degli anni 90, Nike e’ diventata oggetto di critiche e proteste da parte di organizzazioni non governative e gruppi di pressione, che mettevano in risalto le pessime condizioni di lavoro per coloro che producevano manufatti Nike nei paesi del terzo mondo, specialmente in Cina, Indonesia, Vietnam, Tailandia. Tra le accuse, bassi salari, poche liberta’ sindacali, utilizzo di lavoro minorile. Da allora Nike ha messo in atto, sia spontaneamente, sia in seguito alle pressioni, molte iniziative per cercare di correggere determinati meccanismi critici. Nel 1992, prima azienda nel settore, ha adottato un Codice di Condotta. A tale codice si sarebbero dovuti allineare tutte i fornitori di Nike, garantendo il pagamento del minimo salariale in vigore nel paese, il non utilizzo di lavoratori al di sotto dei 16 anni per le aziende di abbigliamento e di 18 anni per le calzature, il rispetto dei diritti sindacali e di associazione, la tutela nella richiesta di lavoro strardinario, condizioni igeniche di tipo occidentale. Ovviamente, non basta un codice di condotta per risolvere i problemi. Il secondo punto cruciale e’ fare in modo che tale codice vada applicato. Ecco che subentra il meccanismo del controllo. Ed e’ un argomento molto complesso perche’ controllare tutto cio’ in 700 fabbriche in oltre 70 paesi e’ molto complicato e di difficile realizzazione. Nike ha agito in tre modi. Innanzitutto ha creato un dipartimento interno, il cui scopo e’ quello di controllare la qualita’ della produzione e l’applicazione del codice di condotta. Siccome, tale attivita’ e’ comunque condotta da Nike e non garantisce imparzialita’, Nike ha cercato di trovare anche una serie di osservatori indipendenti ed esterni in grado di svolgere questa opera di monitoraggio.Spinta dai gruppi di pressione, ha cercato di andare oltre per identificare strumenti ancora piu indipendenti. Ha aderito alla Fair Labor Association, associazione di aziende, organizzazioni non governative ed universita; il cui obbiettivo e’ quello di monitorare lo stato delle condizioni dei lavoratori che producono calzature e abbigliamento in tutto il mondo. Ha inoltre contribuito alla creazione e di una organizzazione non profit che si occupa di studiare le esigenze individuali dei lavoratori attraverso indagini sociologiche sulle necessita’ personali e quotidiane degli operai del settore calzatura e abbigliamento. Questi enti lavorano facendo indagini in fabbriche in tutto il mondo. Attraverso i risultati – che sono pubblici – di tali indagini, mettono in mostra i problemi riscontrati, e chiedono alle aziende come Nike, di mettere in atto tutte le soluzioni necessarie per risolvere i problemi emersi. L’argomento e’ molto complesso. Ad oggi Nike e’ probabilmente nell’industria dell’abbigliamento sportivo, l’azienda che ha fatto di piu’ per cercare di migliorare ed armonizzare al meglio le condizioni di lavoro all’interno delle fabbriche che producono per suo conto. Il sistema non e’ perfetto, perche’ produrre in paesi dalle differenze economiche, culturali e sociali cosi’ evidenti, non facilita certamente il lavoro. Ma certamente ci sono stati miglioramenti rispetto agli ultimi 15 anni…
se avrete domande sarò ben felice di rispondere….
BY AMYLEE

2 commenti su “NIKE E LE CONDIZIONI…”

  1. La prima domanda che mi viene in mente: “Qual è la fonte delle tue informazioni?”
    carla

  2. L’articolo 23 della Convenzione sui diritti del bambino afferma: “È riconosciuto il diritto dei bambini a essere protetti dallo sfruttamento economico e dall’impiego in lavori pericolosi o che sono in conflitto con il diritto all’educazione”. Ancora oggi, nel mondo, circa 250 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni lavorano in condizioni di pericolo e sfruttamento, affrontando maltrattamenti, malattie e persino la morte; circa la metà, 120 milioni, lavorano a tempo pieno, mentre il rimanente tenta, a fatica, di conciliare il lavoro con lo studio o altre attività non economiche. La cifra di 250 milioni di bambini-lavoratori è considerata una sottostima: questa, infatti, non include i bambini che lavorano regolarmente in attività non economiche (come fornire un servizio domestico a tempo pieno nelle case dei propri genitori o padroni). Il numero di questi bambini risulta relativamente alto: circa il 15-20% della popolazione totale del medesimo gruppo.

    A livello mondiale, il lavoro minorile è per lo più prevalente nelle regioni meno sviluppate. In termini assoluti, l’Asia ha il numero più elevato di bambini che lavorano (approssimativamente il 61% del totale mondiale); seguono l’Africa (32%) , e l’America Latina (7%).

    Considerando che milioni di bambini che lavorano sono “indifesi” e spesso non hanno l’opportunità di un’educazione appropriata, l’ex Direttore generale della Oil (Organizzazione internazionale del lavoro), Hansenne, ha affermato che il lavoro minorile è la causa maggiore di sfruttamento e abuso infantile nel mondo di oggi1. Secondo Juan Somavia (nuovo Direttore generale), “lo spettacolo da incubo di bambini e bambine piegati dalla fatica nelle miniere, venduti sul mercato della prostituzione e della pornografia, schiavizzati e trattati come beni mobili da smerciare o sottoposti a lavori pericolosi, ha fatto salire la questione del lavoro minorile al primo posto dell’agenda internazionale.

    Dal medesimo punto di vista, parte, nel 1990 in Olanda, la Clean Clothes Campaign che si prefigge lo scopo di migliorare le condizioni lavorative nell’industria mondiale dell’abbigliamento sportivo e non, condannando fortemente l’utilizzo del lavoro minorile e le altre forme di sfruttamento. La campagna è una coalizione di organizzazioni di consumatori, sindacati, ricercatori, gruppi di solidarietà ed altri attivisti. La richiesta principale è che i produttori accettino un codice di buona condotta e un sistema di controllo indipendente.

    Per esempio, Nike è una compagnia americana, ma quasi tutte le sue scarpe sono prodotte fuori dagli Stati Uniti. Non produce per se stessa: è molto più economica la produzione a piccole industrie nei paesi asiatici. Là i salari sono molto più bassi, i sindacati non sono tollerati o lo sono scarsamente; anche le leggi legate alla sicurezza sono meno severe. La Nike sa che le condizioni di lavoro sono povere: così, per supportare la propria immagine, la compagnia ha redatto un codice di condotta concernente minimi salariali, straordinari, lavoro minorile e sicurezza sul posto di lavoro. Il problema è che non viene effettuato nessun tipo di controllo sulle promesse fatte dai fornitori di rispettare tali canoni, così le scarpe della Nike continuano ad essere prodotte in condizioni molto povere.

    Un articolo pubblicato sul Corriere della Sera (18 ottobre 1998) ha rivelato che Benetton utilizza lavoro minorile in Turchia per la produzione dei suoi abiti. I ricercatori della Campagna hanno inoltre scoperto violazioni dei diritti dei lavoratori in impianti situati in altri stati (come Romania e Madagascar) che producono per questa compagnia. I lavoratori di questi stabilimenti lamentano turni troppo lunghi, straordinari forzati e non pagati, bassi salari, mancanza di assistenza medica, ambienti sporchi, molestie sessuali. Nonostante un’immagine sociale costruita attraverso campagne pubblicitarie ben pianificate, Benetton rimane una delle compagnie che manca di trasparenza. È urgente che Benetton firmi un codice di condotta che contenga gli standard di lavoro dell’Oil, internazionalmente riconosciuti, e che accetti un monitoraggio indipendente sull’intero processo di produzione.

    H&M (Hennes & Mauritz) è la più grande catena di negozi di abbigliamento in Svizzera e il maggiore rivenditore d’Europa. Anche i suoi prodotti vengono realizzati in paesi a bassi salari, così la H&M ha realizzato nel 1994 una serie di regole per i suoi produttori. Il contratto standard che viene utilizzato proibisce il lavoro minorile; a questo riguardo la compagnia fa riferimento alla convenzione Onu sui diritti del bambino ed alla convenzione dell’Oil n° 138. In ultimo, la H&M ha formulato una serie di criteri che mettono in grado la compagnia di controllare se un produttore rispetta le sue richieste concernenti i diritti dei lavoratori e dei bambini. Quando questi criteri non vengono rispettati, il contratto può essere risolto. Nonostante ciò, sono emerse evidenti violazioni di diritti basilari del lavoro da parte dei fornitori della H&M. In seguito alla trasmissione, in Svizzera, di un documentario televisivo sullo sfruttamento di lavoro minorile nelle Filippine, il direttore della H&M, rimasto colpito, ha invitato i suoi produttori di vestiario a firmare una convenzione in cui dichiaravano che non avevano bambini che lavorassero nelle loro aziende. Così, nel dicembre del 1997, è stato redatto un nuovo codice di condotta che è diventato uno dei punti fondamentali nel caso in questione.

    Conclusioni

    Tutti sono d’accordo nel ritenere che, nel combattere il lavoro minorile, è fondamentale vincere la parallela battaglia contro la povertà. Bisognerebbe assicurarsi che le politiche economiche e sociali contro la povertà si focalizzino sui bisogni delle famiglie e delle comunità, sostenendo, in particolare, le famiglie dei bambini che lavorano con impieghi duraturi e nuove opportunità di reddito. Il lavoro minorile è al tempo stesso conseguenza e causa della povertà, pertanto una strategia efficace per affrontare il problema alla radice deve mirare a ridurre la povertà. Si tratta di un problema che va affrontato sia sul piano nazionale sia sul piano internazionale. Questa è anche una responsabilità del mondo intero e non solo del mondo politico: devono essere fatti sforzi a livello internazionale per cercare il modo in cui la comunità mondiale possa essere mobilitata verso un attacco prolungato alla povertà globale. Il lavoro minorile è un problema di tutto il mondo e noi dobbiamo essere uniti nel dire no al lavoro dei bambini e no alle sue cause.
    by bass8

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