DICO LA MIA
Oggi dico la mia su “Nike e lavoro minorile”, approfittando della cortesia del dirigente Nike , che si lascia pazientemente intervistare da Amylee.
7 punti
DICO LA MIA
Oggi dico la mia su “Nike e lavoro minorile”, approfittando della cortesia del dirigente Nike , che si lascia pazientemente intervistare da Amylee.
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Hei, io sono in sciopero, non voi…
carla
Io non sto scioperando ma la ricerca richiede tempo
hahahahahahhahahhahah
ciao a tutti sentite cosa ho trovato e non è una novità da poco: la Reebok ammette tutto. Pratiche antisindacali, sfruttamento della manodopera, vessazioni, illibertà, ovvero gli ingredienti delle condizioni di lavoro nel Terzo Mondo e in particolare nel Sud Est asiatico, riguardano anche gli impianti della multinazionale dell’abbigliamento. E’ tutto confermato da un rapporto commissionato dalla Reebok a una società di Giakarta, la
Insan Hitawasana Sejahtera, che ha indagato sulla situazione dei due maggiori stabilimenti indonesiani del gruppo, il Pt Dong Joe e il Pt Tong Yang, dove si produce la linea di scarpe sneaker. Il rapporto (intitolato “Peduli Hak”, “Sensibili ai diritti”) fa luce sui molti soprusi che vi si commettono, ma l’innovazione non sta tanto nei suoi contenuti (largamente prevedibili), quanto nella decisione di renderlo pubblico presa dalla Reebok. Collegandosi al sito della compagnia, infatti, se ne può scaricare il testo integrale. In questo modo la multinazionale compie un’operazione d’immagine e sostanza nel contempo. «La Reebok – leggiamo nel comunicato stampa – è la prima azienda dell’industria di calzature che renda pubblico un rapporto redatto da terze parti sulle condizioni di lavoro delle sue fabbriche.» E 500 mila dollari (un miliardo di lire circa) sono già stati destinati al miglioramento della situazione nei due stabilimenti indonesiani.
Dunque un cambio di rotta nelle strategie delle multinazionali che può proporre un nuovo modello di trasparenza, un nuovo codice di condotta. I vecchi modelli, tuttavia, non tramontano. Al riguardo fa fede la ritrosia della Nike a riconoscere la realtà delle cose. Sono passati due anni, ormai, da quando, grazie all’impegno di alcuni media e associazioni per i diritti umani (Cbs, Vietnam Labor Watch), l’opinione pubblica internazionale ha scoperto come si lavora nelle fabbriche della Nike in Vietnam, Indonesia e Cina. Da allora è partita una campagna di mobilitazione e monitoraggio che trova uno strumento ideale nella Rete, dove proliferano i siti dedicati alle vessazioni e agli abusi perpetrati negli stabilimenti di subfornitori che fanno capo alla multinazionale. Sfruttamento del lavoro minorile, stipendi che non garantiscono un livello minimo di sopravvivenza, assenza di diritti sindacali e norme igieniche plausibili, turni di lavoro massacranti: sono alcune delle voci che rendono molto proficui gli “sweatshops” (in americano: fabbriche dove si sfruttano le maestranze) della Nike. La quale risponde in modo elusivo alle critiche: sarebbero messe in circolazione, dice, da frange di attivisti su Internet, ma non ci sarebbero prove. Affermazione smentita dalla moltiplicazione di rapporti, testimonianze e articoli apparsi su testate di calibro come Washington Post e New York Times. L’area geografica “sotto osservazione”, inoltre, si è estesa dall’Estremo Oriente fino al Centroamerica, in quelle zone franche d’esportazione dove il lavoro non costa nulla e i governi ospiti hanno in pratica abolito l’imposizione fiscale: qui prosperano parchi industriali di grandi dimensioni in cui i subappaltatori lavorano e assemblano prodotti per le grandi marche statunitensi (e la Nike è inclusa tra i committenti). Il tutto sulle spalle della manodopera locale. Se riguardo a questa situazione sembrano prospettarsi poche vie d’uscita, a livello internazionale la campagna contro lo sfruttamento del lavoro minorile fa dei passi avanti. Risale allo scorso giugno, ad esempio, l’approvazione di una convenzione contro il lavoro minorile da parte dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro), votata all’unanimità da rappresentanti di governi, imprese e sindacati.
Negli ultimi anni le multinazionali hanno assunto volantariamente dei codici di condotta, che sono il risultato di scelte di marketing e di pressioni istituzionali. Ma qual è il loro impatto effettivo sui lavoratori del Sud del mondo? Di questo argomento si è occupato per la prima volta il Centro dei diritti umani dell’Università americana dello Iowa, in un rapporto intitolato “Promoting international worker rights through private voluntary initiatives: public relations or public policies?”. Il rapporto, commissionato all’Università dal Dipartimento di Stato americano, è il risultato di due anni di ricerche. Il professore Elliot J. Schrage, l’autore del rapporto, analizza il reale impatto dell’ introduzione dei codici di condotta sul problema dello sfruttamento lavorativo nelle fabbriche che, nel Sud del mondo, producono per il mercato americano.
Per fornire un quadro sufficientemente completo della situazione, lo studio prende in esame quattro casi significativi rispetto alla violazione dei diritti del lavoro:
la produzione di palloni da calcio in Pakistan, di caffè nell’America Centrale, di giocattoli in Cina e di cacao in Costa d’Avorio.
Per ogni caso, la ricerca si focalizza sulle condizioni lavorative in quel settore (lavoro minorile, libertà di associazione, degrado ambientale, salari ecc.), il ruolo svolto da marchi comeNike,Reebok,Starbucks, Nestlé, gli sforzi effettuati da iniziative private, ad esempio con l’introduzione dei codici di condotta e il loro effetto reale sui diritti dei lavoratori.
I codici di condotta, questa è la conclusione del rapporto, costituiscono solo un minima parte degli sforzi privati finalizzati all’eliminazione dello sfruttamento e nella maggior parte dei casi non vengono resi operativi sul campo. In poche parole le buone intenzioni delle multinazionali rimangono lettera morta. Questo accade perché mancano una serie di misure a sostegno dei codici stessi: programmi di formazione (che coinvolgano il personale delle multinazionali, i loro partner e gli stessi lavoratori nelle fabbriche), programmi di monitoraggio (controllare che i partner adottino i codici), incentivazioni (sistemi remunerativi per i partner che adottano i codici) e assistenza (fornire ai partner gli strumenti per adottare i codici).
Schrage, l’autore, auspica inoltre un maggiore coinvolgimento delle istituzioni, attraverso l’incentivazione di programmi contro lo
sfruttamento e l’ introduzione di nuovi meccanismi di controllo.
Questo studio è stato pubblicato nel febbraio 2004 , per informazioni più dettagliate vedi
per un errore non è venuto pubblicato il sito dell’Università
mi rassegno a scriverlo io
Scusate Yata21
La Nike produce delle scarpe molto belle che anche io compro anche se sfruttano però la manodopera minorile nei paesi sottosviluppati, in questo modo le pagano poco e ne traggono più profitto.Penso che finche le persone continueranno a comprare queste scarpe la Nike sfrutterà sempre di più questi bambini.
Molti dei prodotti industriali, dei giocattoli, degli oggetti per la casa ecc. vengono prodotti nel Sud del mondo.Vi parlerò delle scarpe Nike e Reebok. Queste sono le marche più note e più vendute, le più pubblicizzate e presenti nei negozi sportivi. Queste due importanti marche commissionano il lavoro di produzione nel Sud Est Asiatico: delle 84 mila persone che lavorano per la Nike, ad esempio, solo 9 mila abitano nel Nord del mondo; ben 75 mila abitano nel Sud. Recentemente la produzione si è spostata quasi del tutto in Indonesia. Gli operai della Nike che lavorano là sono pagati per 270 ore al mese (9 ore al giorno) meno di 40 dollari al mese (meno di 62 mila lire, ossia duemila lire al giorno). Questo salario copre appena il 31% del fabbisogno di una famiglia di 4 persone. Quindi su un paio di scarpe Nike, che noi paghiamo a caro prezzo, il costo del lavoro incide solo per lo 0,1%. Se poi a lavorare, come purtroppo accade molto di frequente, sono dei bambini, i salari sono al di sotto della linea di povertà. Spesso i lavoratori sono costretti anche a svolgere dalle 120 alle 150 ore di straordinario al mese senza avere garanzie del posto di lavoro né tutela sindacale. Anche i lavoratori della Reebok sono in gran parte indonesiani ma se ne trovano inoltre in Cina, in Thailandia, in Corea del Sud ed altri paesi del Sud del mondo.
La Nike e la Reebok, sotto la pressione dell’opinione pubblica, hanno adottato un codice di autoregolamentazione che fissa i criteri per individuare le imprese a cui appaltare la produzione. Ma tali criteri non appaiono molto seri, poiché si basano su leggi farsa locali, che non prevedono meccanismi di controllo democratico.
pulce90
Ogni giorno facciamo la spesa pensando che sia un atto insignificante che riguarda solo la nostra vita, i nostri gusti, i nostri soldi. Non ci rendiamo conto che con questo semplice gesto diventiamo complici di un sistema mondiale basato su un enorme squilibrio tra Nord e Sud del Mondo. Lo sapevi che il Nord, pur ospitando solo 1 miliardo e 200 milioni di persone, cifra pari al 23% della popolazione mondiale, consuma l’84% delle risorse mondiali, mentre il Sud, dove vivono 4 miliardi e 100 milioni di persone, ne consuma solo il 16% ?
In questo sistema economico “regnano” le multinazionali, per le quali quello che conta è il profitto e l’aumento della produzione a discapito del rispetto della dignità e dei diritti della persona umana. Pensa ad esempio al comportamento della Nike in Indonesia, dove gli operai lavorano 270 ore al mese e ricevono un salario che corrisponde a circa 64.000 lire, somma assolutamente insufficiente a soddisfare i bisogni primari di un nucleo familiare di 4 persone.Se guardiamolo sfruttamento dei bambini, i numeri sono ancora più sconcertanti: per 8 ore di lavoro al giorno per 6 giorni la settimana il salario mensile medio è di 30.000 lire. Quindi comprando un paio di scarpe Nike diventiamo complici di un ingranaggio basato sullo sfruttamento.
Isa04
la nike e questo è ormai provato, come altre multinazionali sfrutta i bambini per produrre delle scarpe e articoli sportivi che tutti noi compriamo siccome sono belli e di tendenza.Ormai però non si può più andare avanti così, ragazzi come noi anche più piccoli e sono sottratti dalla scuola e dagli svaghi, costretti a lavorare per due soldi che non bastano neanche per sfamarsi. Bisogna fare assolutamente qualcosa perchè non è giusto che questi imprenditori diventino straricchi sulle pelli di migliaia di bambini.
Ormai è sicuro che la nike sfrutta il lavoro minorile. Bisognerebbe trovare unmodo per almeno limitare questi eventi ma questa cosa continua da tempo. Speriamo che ci si sbrighi a fare qualcosa.