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Che cos’è la globalizzazione?



 


 


Rischi e prospettive della società planetaria. Carocci, Roma 1999 (edizione originale: Was ist Globarisierung? Irtümer des Globalismus – Antworten auf Globalisierung, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1997).
pp.198, ISBN 88-430-1276-2


Recensione di Ilaria Dal Canton- 8/5/2000


Di estrema chiarezza e concisione, il libro di Beck si colloca all’interno dell’ampio dibattito – in realtà tardivo rispetto all’esplosione del fenomeno stesso – che concerne il problema della globalizzazione: problema dalle mille sfumature, al quale non si può sottrarre una odierna riflessione sul politico e il sociale.


Cos’è dunque la globalizzazione?


Secondo Beck si tratta dell’ “evidente perdita di confini dell’agire quotidiano nelle diverse dimensioni dell’economia, dell’informazione, dell’ecologia, della tecnica, dei conflitti transculturali e della società civile, cioè, in fondo qualcosa di familiare e nello stesso tempo inconcepibile, difficile da afferrare, ma che trasforma radicalmente la vita quotidiana, con una forza ben percepibile, costringendo tutti ad adeguarsi, a trovare risposte” (pag. 39).


Un fenomeno, dunque, che coinvolge la vita umana (ma non solo) nel suo complesso, per la cui comprensione non è sufficiente un’analisi di tipo solo economicistico (come quella di Wallerstein). La globalizzazione è anzitutto un fenomeno culturale. Il che non implica necessariamente una omologazione, una “macdonaldizzazione” del mondo, quale denunciata con preoccupazione dai cultural studies. Si tratta di un che di molto più complesso, contraddittorio, sfumato.


L’originalità di Beck consiste proprio nell’affrontare un’indagine sulla società globale, senza cercare di ridurre la complessità dell’oggetto: “lo sforzo di determinare questo concetto, scrive, è simile al tentativo di inchiodare un budino alla parete”. Da qui, la possibilità di fornire un quadro esauriente delle diverse sfumature, che caratterizzano questa “seconda modernità”. Beck considera la globalizzazione come un fenomeno intrinsecamente conflittuale. La chiave per comprenderlo consiste, dunque, nel pensare dialetticamente le contraddizioni, che sono ad esso implicite, senza ridurle ad un tutto omogeneo e monolitico. Così, egli osserva, la globalizzazione comporta una ri-localizzazione, la quale non si configura come un semplice ritorno alle tradizioni, ma come una sintesi efficace tra globale e locale, ben esemplificata dal tirolese “Wüsterl bianco Hawaii”. Si tratta insomma di una “glocalizzazione” (neologismo, che Beck mutua da Roland Robertson): de-localizzione e ri-localizzazione, insieme.


La stessa composizione mobile di contrari si insinua anche nella sfera della morale: l’universalismo degli imperativi deve farsi contestuale, essere cioè in grado di cogliere i propri limiti, che sono dati dal proprio tempo e dal proprio luogo. Da questa prospettiva soltanto, può essere proposta una critica, di ampiezza interculturale.


Per un analogo principio, la risposta che la politica può dare al mondo globale (o meglio “glocale”), è una stato “trans-nazionale”. Organismo androgino, dotato di una “sovranità inclusiva” come osserva Beck, che rappresenterebbe l’incarnazione del motto “pensare globale, agire locale”. In tal senso, lo stato trans-nazionale si configurerebbe come un superamento radicale della nazione, pur non comportandone l’eliminazione. Facendo leva sullo stato trans-nazionale (concepito come uno stato commerciale globale), la politica deve essere con ciò in grado di organizzarsi a più livelli, tramite una rete di azioni che possa imbrigliare tanto il particolare, quanto il generale. Una prospettiva, questa, che esclude radicalmente la formazione di uno stato mondiale, così come di un governo mondiale unitario: la politica mondiale deve essere pensata come policentrica, come la coordinazione di una pluralità di stati trans-nazionali. “Globalizzazione significa anche: non-Stato mondiale. Meglio: società mondiale senza Stato mondiale e senza governo mondiale. Si espande un capitalismo globale dis-organizzato, perché non ci sono una potenza egemone e un regime internazionale, né economico né politico” (pag. 26).


Un ruolo cruciale in questa direzione è quindi attribuito alla società civile, non fosse altro per il fatto che, molto più avanzata delle istituzioni politiche, essa già è proiettata verso una dimensione mondiale, travalicando i confini delle nazioni, ponendo fine alla concezione dello “stato come container della società”. Come lo stato transnazionale, anche la società mondiale “non è una megasocietà nazionale, che contiene e annulla in sé tutte le società nazionali, ma un orizzonte mondiale, caratterizzato dalla molteplicità e dalla non-integrazione, che si manifesta solo quando viene prodotto e conservato nella comunicazione e nell’agire” (pag. 25). Si tratta, insomma, di una diversa concezione della società civile, a cui necessariamente fa riscontro una diversa concezione della democrazia. La riorganizzazione del mondo in senso globale inevitabilmente conferisce infatti un duro colpo alla democrazia rappresentativa, come è stata consegnata alla tradizione politica europea dall’Illuminismo settecentesco. La riappropriazione da parte della politica di sfere lasciate de-regolamentate in mano all’economia non è indolore, richiede un adattamento, che tuttavia non può non essere affrontato. La democrazia deve essere rifondata, per tenere a bada l’economia di mercato. La seconda modernità ha dunque bisogno di un secondo Illuminismo? Ulrich Beck è, in fondo, ottimista.



 


3 commenti su “nessun titolo”

  1. Secondo me quello che dice Beck è verissimo.
    Prestando particolare attenzione alle sue implicazioni etiche;l’umanità è entrata in una nuova fase nella quale l’economia di mercato sembra aver conquistato virtualmente tutto il mondo.
    Dal discorso del Papa,Giovanni Paolo II ai PARTECIPANTI ALLA PLENARIA DELLA PONTIFICIA ACCADEMIA DELLE SCIENZE SOCIALI del venerdi, 27 aprile 2001,dice:che la Globalizzazione,a prioli, non è né buona né cattiva.Sarà ciò che le persone ne faranno;deve essere al servizio della persona umana, della solidarietà e del bene comune.
    La Globalizzazione è un progetto che immagina il pianeta come un unico grande paese sia per il denaro che per le idee e le esperienze.
    Questo termine è di origine anglosassone che
    indica il processo di unificazione culturale, politica ed economica in atto a livello planetario

  2. Oggi tutti parlano di globalizzazione ma quanti sono in grado di cogliere a pieno il significato di questo termine di gran moda è difficile dirlo. L’ unica cosa certa è che ognuno lo interpreta come un processo inarrestabile che coinvolge l’ intero pianeta, ma solo pochi si accorgono che presenta molti più aspetti di quanto comunemente non si pensi. Le analisi della globalizzazione si propongono quindi di mettere in luce che con questo concetto vanno compresi “non tanto e non solo la crescita e l’ accellerazione degli scambi che travalicano i confini degli Stati, dallo sviluppo delle imprese multinazionali alla internazionalizzazione dei beni e dei servizi fino alle transazioni finanziarie; bensì tutto il complesso delle conseguenze che nascono dall’ interdipendenza tra le trasformazioni del quadro economico, il sistema socio demografico e le istituzioni della politica”.
    Tutti i cambiamenti che hanno investito l’ umanità in questo secolo possono essere riassunti nell’ espressione compressione spazio-temporale. I progressi tecnologici nel mondo dell’ informazione e della comunicazione hanno permesso una straordinaria riduzione delle distanze in termini di tempo e di spazio: singoli attori sociali o gruppi, sia pure collocati agli estremi confini della terra, e perfino eventi accaduti in lontanissimi luoghi sconosciuti, entrano in contatto e interagiscono, dando vita a conseguenze globali. All’ origine dei processi di globalizzazione è comunque preminente la dimensione economica a causa soprattutto del “ribaltamento” del rapporto di forza tra economia e politica.
    La globalizzazione dei mercati finanziari sancisce la supremazia delle forze di mercato sulle scelte politiche e ed economiche degli Stati nazionali: i più importanti mercati borsistici e finanziari sono in grado di spostare in pochi minuti ingentissime quantità di denaro, talvolta di molto superiori al bilancio di uno Stato. I capitali globali sono ormai in grado di imporre le proprie leggi all’ intero pianeta e nella totalità degli aspetti della vita, “sia pure solo in ragione del fatto che possono sottrarre alla società risorse materiali (capitali, tasse, posti di lavoro)”. Gli Stati non hanno abbastanza risorse o libertà di manovra per sopportare la pressione dell’ economia mondiale per il semplice motivo che un attimo è sufficiente a far crollare le imprese e gli Stati stessi: una volta distrutta la sua base materiale e annullata la sua sovranità allo Stato-nazione non rimane che diventare l’ amministratore degli affari delle multinazionali e garantire la loro sicurezza.
    La crescente mobilità, reale e virtuale, acquisita da coloro che possiedono i capitali è emblematica della nuova divaricazione tra economia e politica, tra potere e obblighi sociali. I rappresentanti delle imprese che agiscono globalmente hanno la possibilità, e la sfruttano a pieno, di sottrarsi ad ogni vincolo e ad ogni dovere di contribuire al perpetuarsi della società civile.
    Con il concetto di “subpolitica” si sottolinea “l’ opportunità di azioni e potere, al di là del sistema politico, senza mutamenti legislativi o discussioni parlamentari, accresciutasi per le imprese che agiscono nel quadro della società mondiale”.
    Questo avviene concretamente nell’ esportazione dei posti di lavoro dove i costi e le condizioni sono più convenienti, nel produrre e distribuire in luoghi diversi del mondo per avere le migliori condizioni fiscali, nel vivere nei paesaggi più belli ma pagando le tasse dove più conviene. I protagonisti della crescita economica minano l’ autorità dello Stato pretendendo le sue prestazioni ma rifiutandogli le tasse; in questo modo “i ricchi diventano contribuenti virtuali e seppelliscono in modo legale, ma illegittimo,il bene comune democratico al quale pure si appellano”.
    Tutto ciò avviene nella cornice di una globalità irreversibile, di una società mondiale in cui le garanzie di ordine territorial-statale e le regole di una politica legittimata dal pubblico consenso perdono il loro carattere vincolante. Quanto più i rapporti tra gli attori transnazionali si rafforzano e si intrecciano tanto più viene messa in discussione l’ autorita degli Stati, per cui si assiste ad una politicizzazione della società mondiale attraverso un depotenziamento della politica nazional-statale.
    L’ insieme di queste trasformazioni si manifesta in sostanza in un indebolimento della solidarietà collettiva, comunque essa sia intesa. “Il nesso tra globalizzazione e solidarietà è persino banale: l’ accrescimento delle esigenze di competitività e di flessibilità delle imprese, dei mercati finanziari, del lavoro, delle tecnologie, entrano in conflitto con la conservazione dei principi di solidarietà che danno forma e sostanza al contratto sociale sul quale è fondato lo stato sociale del dopoguerra”.
    La prima ragione è che i meccanismi di protezione sociale dipendono dalla direzione delle scelte politiche dei singoli Stati nella distribuzione delle risorse, ma l’ autonomia della sfera politica non è più possibile dal momento in cui i paesi sono economicamente interdipendenti. Il benessere di una nazione non è più regolabile solo sulla base di un confronto tra le parti sociali interno ai singoli paesi, ma dipende piuttosto dalla loro capacità competitiva e dal loro peso nella scena internazionale.
    Un ulteriore questione che evidenzia il legame tra la globalizzazione e la solidarietà consiste nell’ aumento della flessibilità dei fattori economici. La dislocazione dei capitali e delle iniziative produttive nelle aree del sud del mondo dove risultano più redditizie, in ragione del più basso costo del lavoro e dei più bassi livelli di protezione sociale, accresce sia l’ instabilità che l’ insicurezza dell’ occupazione di segmenti più o meno ampi di popolazione, poichè distrugge il lavoro all’ interno dei paesi d’ origine nei settori esposti
    alla concorrenza. Di conseguenza, nonostante la crescita della ricchezza prodotta dall’ aumento degli scambi, la povertà e la disegualianze all’ interno di questi paesi tendono ad ampliarsi per l’ aumento della disoccupazione, e quindi degli squilibri di reddito in assenza di un qualche sistema di “welfare”.

    Globalizzazione, demografia e società

    Il processo di globalizzazione, come già ricordato, non si presenta sotto un unico aspetto: nelle società occidentali, in particolare, è legato profondamente ai mutamenti nella struttura sociale. Tra questi, prima di tutti, il cambiamento demografico che si esprime da un lato attraverso un crescente invecchiamento della popolazione e dall’altro nel declino dei tassi di fecondità. A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta il tasso di fecondità totale è sceso, in tutti i paesi occidentali, in modo tale da non garantire più il ricambio della popolazione da generazione a generazione.
    Dall’ altra parte, i progressi scientifici e la crescita del benessere complessivo hanno determinato un progressivo incremento delle probabilità di sopravvivenza dando luogo ad un allungamento della durata media della vita. E’ evidente che, nell’ ipotesi dell’ assenza di immigrazione, queste condizioni porterebbero,
    nel lungo periodo, ad un calo netto della popolazione complessiva.
    Il problema che si sta delineando è soprattutto che l’ invecchiamento demografico, combinandosi con le conseguenze prodotte dalla globalizzazione dei mercati, riduce progressivamente le possibilità di funzionamento dello Stato sociale. Nell’ arco degli ultimi decenni le regole che governavano la distribuzione di risorse tra persone attive e inattive sono state completamente stravolte: la direzione dei trasferimenti ha cambiato segno ed è ora orientata dai giovani agli anziani. Tutto questo ha enormi conseguenze sulla struttura sociale ma anche e soprattutto sulla dimensione culturale della società.
    L’ interazione tra globalizzazione e trasformazione demografica porta, quindi, da un lato l’ erosione della possibilità di impiego dei soggetti più deboli e non qualificati che incrementa lo squilibrio sociale del sistema, dall’ altro la difficoltà crescente dei giovani per entrare nel mercato del lavoro e la riduzione dell’ ammontare complessivo delle risorse destinate alle generazioni future.
    Il cambiamento radicale che ha coinvolto il mercato occupazionale in Italia negli ultimi trent’ anni è dovuto al passaggio dalla società industriale a quella post-industriale. La ristrutturazione del settore produttivo e l’ espansione del settore dei servizi hanno determinato la nascita di nuovi strati sociali all’ interno del ceto medio. L’ introduzione nel settore industriale delle nuove tecnologie dell’ automazione, dell’ informazione e della comunicazione che necessitano una sempre maggiore flessibilità dell’ organizzazione del lavoro, portano ad un progressivo restringimento della classe operaia a favore dei nuovi ceti rappresentati da tecnici, impiegati, operai altamente specializzati. A questo si accompagna la nascita del ceto medio impiegatizio e degli operai legati ai servizi e l’ emergere della nuova oligarchia finanziaria che fa riferimento alla classe imprenditoriale.
    Questo processo è di portata tale da rimettere in discussione le precedenti gerarchie sociali; esso tende a creare un contesto in cui non ci sono classi, status, nè parametri universalistici di riconoscimento, individuali o collettivi, non ci sono regole che valgono per tutti e che tutti conoscono. “La stessa percezione soggettiva dell’ ordine sociale finisce per essere rimessa in discussione”.
    Rimangono o crescono le disegualianze e gli squilibri tipici della struttura sociale moderna ma viene a mancare quell’ identificazione tra occupazione e classe sociale che forniva alla persone una identità da tutti riconosciuta. Venendo a mancare quel senso di appartenenza collettiva che aveva dato vita alle rivendicazioni tipiche della classe operaia, diventa più problematica una ricomposizione globale degli interessi in campo che possa portare ad un’ effettiva riorganizzazione in senso solidaristico della struttura sociale.

    http://www.ecn.org/csoapinelli/Sitonog8/docs/global.html

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