tra i nobel italiani per la pace ve ne è solo uno italiano: ernesto teodoro moneta.
Ha appena festeggiato il centenario del Nobel per la Pace all’unico italiano: Moneta il garibaldino, Moneta il giornalista, Moneta il “filantropo” – per usare uno scialbo e pietistico termine che in nulla definisce il peso e il pondo di un’esistenza contrassegnata dall’impegno e dalla condivisione appassionata, totale, ferma e decisa. Un’esistenza di consapevolezza, in cui la pace non si poteva che coniugare con la giustizia, pena restare un sogno romantico per pie nobildonne. Moneta è tutto questo e anche di più. Come tutti i personaggi unici, sfugge a categorie preconfezionate. L’hanno chiamato il padre del pacifismo italiano. Stimato anche da Tolstoj, e fra i primi a rendersi conto che per evitare i conflitti occorreva un arbitrato internazionale, vincolante per i governi che la sottoscrivevano. Il crispino che si opponeva con forza alla guerra d’Etiopia, e al colonialismo in genere, difendendo il diritto dei popoli all’auto-determinazione in un periodo in cui trionfavano – oggi come allora – le logiche dello scontro di civiltà, i deliri di supremazia culturale e razziale, la futuristica aspirazione al sangue come “sola igiene del mondo”. Ottocento anch’esso. Un Ottocento strappato all’oleografia dei vecchi cappelli, dei favoriti e dei crumiri, di quell’eleganza impolverata e goffa, di quella boria sabauda, degli sguardi impettiti di fumosi dagherrotipi. I baffi di Moneta. Lunghi, bianchi, mai giovani. Ma niente di polveroso, nessuna delle care cose di pessimo gusto dietro lo sguardo scintillante e profondo, strappato alla retorica e incarnato nel suo eroe Garibaldi finalmente compreso e umano. Moneta che, in anticipo sui nostri ambientalisti d’accatto, organizzava biciclettate nei parchi. E sempre per lei, per la pace. Moneta che voleva raggiungere tutti col suo pugnace e leggero cavallo d’acciaio.
Io e la NiNa abbiamo fatto un bel Lavoro!